Mi svegliai con il sole già alto. E fu strano. Quasi mi dispiaceva.
Gli insetti avevano ripreso il loro cicalìo, le pulci a saltare sulla coperta e i ratti, tornati nelle loro tane, smettevano di sembrare indaffarati. Nella baracca di fango e legno, pregna dell’odore di fumo misto all’umido della notte, anche l’imbarazzante tanfo dei miei vestiti – sudore e acre lezzo di umanismo – si amalgamavano in quel pezzetto di mondo.
Sarebbe stato un giorno diverso da quelli finora trascorsi nel villaggio di Mfan a casa di Valentine. Lo sentivo. Giorni passati a correre nella savana sperando in un qualche roditore da buttare sul fuoco.
Sempre che i cani non se li fossero mangiati prima. E qualche volta accadeva.
All’esterno della baracca gli occhi impiegarono un po’ ad abituarsi alla forte luce. In Africa, tutto è esagerato: i profumi inebriano, la luce accieca. Il buio è nero come la pece, la puzza nauseabonda. L’aria che respiri è ossigeno puro con poco azoto, ubriaca. La terra rossa non sporca, colora. La pioggia non bagna, pulisce. Il vento non smuove, fa danzare. Non ci sono vie di mezzo. Sembra quasi raccontare – l’Africa – io sono tutto. E non sono niente.
All’esterno della baracca gli occhi impiegarono un po’ ad abituarsi alla forte luce, e nel mentre sentivo una pietra cote sfregare insistentemente la lama dei machete, la moglie di Valentine era intenta nel preparare la colazione. Li chiamavano bignè: un semplice amalgama di acqua e farina di manioca fritti nell’olio di palma. Mi vide e sorrise, facendomi cenno di sedere a terra e servirmi. Avevo fame e quello non era certo il luogo né l’occasione per avere riguardi. Dopo aver mangiato stufato di topi e termiti abbrustolite, una frittura nell’olio di palma non avrebbe di certo peggiorato la mia salute. Apprezzai i bignè. Ringraziai la donna e mi misi alla ricerca di Valentine.
Trovai Valentine e suo figlio intenti nell’arrotare i machete. Mi salutò e in un francese più timido del mio mi fece capire che quel giorno non avremmo corso in giro per la savana. Quello era giorno di pesca. Ne fui sollevato. La corsa non è mai rientrata tra le mie passioni principali, nemmeno negli eventuali (e rari) periodi salutistici. Nei giorni passati nella savana durante le battute di caccia avevo raccolto materiale sufficiente per comporre il servizio fotografico quindi, scoprire che quel giorno saremmo andati a pesca, mi rese contento.
Va detto che mio padre non mi ha mai iniziato ad attività venatorie; non sono tradizioni di famiglia né frequentavo amici appassionati. E tranne qualche levataccia da ragazzino – più per riempire qualche pigra e noiosa mattinata estiva in una città di mare e di confine, la mia esperienza con la pesca si riduceva alla frequentazione del bancone del mercato. Con mia madre. Ricordo che durante quelle pigre mattinate estive, dal molo del piccolo porticciolo qualcosa pure pescavo e fiero come un novello Sampei tornavo a casa e attendevo i complimenti di mia madre. Passò l’estate, arrivò l’inverno. L’interesse per la pesca scomparve con la stessa velocità con cui iniziò. In silenzio.
A pochi chilometri dal villaggio di Mfan scorre un pacioso quanto grande fiume, il Nyong, lo stesso che offre all’agglomerato urbano di Akonolinga una centrale idroelettrica, tanto importante quanto inutile. Costruita dai francesi per fornire la corrente in quella zona interna del Camerun, la centrale era ormai troppo vecchia e malandata per svolgere il suo ruolo. E il Nyong non le veniva certo in aiuto: troppa acqua durante la stagione delle piogge, troppo poca durante la stagione secca. Le turbine, che avevano visto tempi più illuminati, si bloccavano in continuazione. Il Nyong però era lì da secoli e da secoli contribuiva all’evoluzione e al sostentamento della gente del posto. Ci si rivolgeva al fiume per lavarsi, per fare il bucato, per giocare, per ritrovarsi e raccontarsi storie, per pescare. Ma anche per scaricare ogni schifezza possibile, pensando che il fiume l’avrebbe portata via, da qualche parte; convinti che potesse lavare anche le coscienze. Lasciai i due uomini proseguire con il lavoro di affilatura e finii i bignè della colazione, non prima di averne condiviso uno con i miei angeli custodi in quei giorni a Mfan: Balotru e Mbulia, i due cani di Valentine. Ci incamminando lungo la strada di terra rossa che tagliava il villaggio in direzione della foresta. Lungo quella strada, due uomini giovani e dall’aspetto “forte”, si unirono a noi. Uno di loro mi colpì in particolare: ogni suo muscolo disegnava una curva, ogni curva emanava potenza e forza. Sembrava il figlio di Euclide tanto perfette erano le sue forme.
Ma ciò che mi sorprese furono i suoi occhi: un pozzo profondo. Nero. E muto. Uno sguardo incapace di ogni parola. Lo sguardo di chi si è perduto in una scintillante follia dentro la piccola cella di una grande prigione. Ed ora era tornato. Senza grandi saluti, senza lunghe parole, ognuno armato del proprio machete, una cesta sulla testa, con Balotru e Mbulia felicemente scodinzolanti, entrammo nella foresta.
Il sole accecante di quel mattino africano iniziò la sua danza e il suo nascondersi tra i rami e le foglie di quegli alberi dai nomi esotici, memorie di un ragazzino che sognava le avventure raccontate da Salgari e Stevenson. Per quasi un’ora ci addentrammo in quel magico mondo fatto di ombre, di riflessi, di rumori ora stridenti ora profondi, fermandoci a volte per cogliere qualche mango, o banane, o un qualsiasi altro frutto che avrebbe smorzato la fame di metà giornata.
Ho sempre potuto contare su un senso dell’orientamento e dello spazio molto fine e mi resi conto che non ci stavamo avvicinando al fiume Nyong, anzi, stavamo proseguendo dalla parte opposta. Mi ero immaginato una giornata di pesca sopra una piroga, attento a non rovesciarla; navigando le pigre acque del fiume, trascinando una rete o pescando con la canna, chissà. Ma ora stavo seguendo tre uomini silenziosi e dal fisico marcato, armati di machete e con una cesta sulla testa, che le loro ombre nella foresta facevano sembrare guerrieri. Non capivo dove stavamo andando ed ero l’unico a preoccuparmene.
Ad un certo punto del nostro vagare ormai ubriaco dal verde smeraldo di quella foresta, con il volto sudato, dopo aver profanato mille ragnatele tra i rami intrecciati, la macchina fotografica sporca di fango e moscerini, i tre uomini si fermarono in una piccola radura tra gli alberi. Un sottobosco fitto di rovi e liane e insetti. Passi incerti con il timore di cadere chissà dove. I tre uomini, forti, decisi, con le ombre a forma di guerrieri, posarono le ceste a terra e tornarono a essere semplici uomini. I cani accovacciati sotto un albero iniziarono un sonno che pareva un’attesa. E io attesi. Non sapevo cosa, ma attesi.
I tre uomini, con machete e la foga del silenzio, iniziarono a violentare il terreno di quella magica foresta. Fendenti precisi e profondi. Ogni quattro fendenti una zolla di terra veniva via. Ogni zolla, un buco. Ogni buco un pozzo di fango. Il fango veniva tolto e una sorta di diga prendeva forma. Dal sottobosco di rovi e liane stava nascendo un lago melmoso. I corpi immersi sino al volto muovevano braccia sotto la melma collosa alla ricerca dei corpi viscidi di pesci senza occhi e senza squame. Pesci bianchi, nati per muoversi nel fango buio della foresta. Peschi bianchi, viscidi e sfuggenti, che diventavano neri appena tolti dalla terra.
E non ci furono reti, non ci furono canne da pesca. Non ci fu nemmeno un fiume né una piroga. Ci furono solo tre uomini dal fisico marcato, immersi nella melma fino alla bocca, che lottavano contro gli insetti, contro la fatica. E che, con le sole mani nude, rubavano pesci bianchi e viscidi alle radici di quella foresta verde smeraldo, diventando loro stessi, a volte, parte di essa.
I tre uomini per tutta la mattinata affondarono i machete nel sottobosco di rovi e liane, tolsero quintali di fango, deviarono ettolitri di acqua melmosa. Violentarono la loro foresta dandole un altro volto. Poi si fermarono. Di colpo. Nel silenzio di una foresta ammutolita. Si rimisero le ceste piene di pesci bianchi diventati neri sulla testa e le loro ombre, disegnate dal sole che danzava tra i rami e le foglie di quella foresta, li fecero sembrare nuovamente dei fieri guerrieri. Senza chiedere perdono alla terra violentata e snaturata ci mettemmo sulla via del ritorno. La foresta non disse nulla.
Da lì a qualche giorno si sarebbe ripresa ciò che le apparteneva: i rovi e le liane sarebbero ricresciute, le orme cancellate, altri pesci sarebbero nati e avrebbero alimentato il fango del sottobosco.
Tutto sarebbe tornato come prima. Come da secoli accade.