Reportage

Satkhira’s orphanage

Satkhira’s orphanage

Bangladesh

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Children

Shatkira Bangladesh

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Con riguardo ma senza alcuna timidezza si avvicinò. Poteva avere otto, forse nove anni. Occhi grandi, neri. Occhi profondi, a tratti dolenti tanto da sembrare un uomo. Fissandomi disse qualcosa che io non capii, ma immaginai volesse sapere il mio nome. E glielo dissi in inglese, perché all’estero ho sempre avuto l’abitudine di dire il mio nome in inglese. Sembra sia più facile da ricordare. Lui sorrise con gli occhi ancor prima che con la bocca e, mentre lo faceva, senza che io lo chiedessi, mi disse il suo. Me lo feci ripetere. Ancora una volta. Poi una terza. E ogni volta non capivo. E ogni volta i suoi occhi continuavano a sorridere.

Nei giorni passati in uno dei paesi più poveri al mondo non sono mai riuscito a capire come realmente si chiamasse il mio nuovo amico. E questo mi dispiace ancora adesso. Il suo nome sarebbe potuto essere: Anil, Kamal, Jograj; oppure Hiresh, Gulab, Geet, Devesh, e comunque non sarebbe cambiato nulla. Il nome sarebbe servito solo per chiamarlo oppure per descriverlo un giorno, e non certo per ricordarlo. Lo chiamerò Charan, mi piace il suono di questo nome che in sanscrito significa “Piedi di Dio”. Charan parlava la lingua del suo paese, il Bangladesh, e mentre lo faceva sembrava un fiume in piena. Suoni incomprensibili che nel suo quotidiano avevano un senso producevano in me l’unico effetto di farmi sentire fuori luogo.

Poco distante urla gioiose distraevano il nostro improbabile dialogo e, anche per soddisfare la mia indole curiosa, con Charan mi avvicinai al pukur brulicante di vita. I pukur – piccoli laghi artificiali – sono come le nostre piazze. Sono ambienti sociali ove la gente si ritrova, dialoga e discute, lava i panni, lava le bestie, lavano se stesse, a volte la loro l’anima molto più spesso solo lo sporco. In quel momento, e nei giorni a seguire, per Charan ero lo straniero da accompagnare nel suo mondo e lui fece di tutto per farmelo conoscere. Molti altri bimbi, bagnati e sorridenti, si avvicinarono a noi e ad ognuno di loro dissi il mio nome con la miglior pronuncia possibile. Ed ognuno di loro mi disse il suo in una sorta di presentazione formale come accade tra gentiluomini.

Nessuno di quei nomi mi rimase impresso – questo già lo sapevo – e proseguii nella mia beata ignoranza convinto del fatto che, in quel momento, un nome era solo un nome. Ed io ero molto più interessato a chi lo portava e alla sua storia e non a come si chiamava.

Charan e gli altri bimbi: bagnati, festanti ed eccitati dalla novità del giorno erano tutti residenti dell’orfanotrofio maschile di Satkhira – cittadina a 250km a sud della capitale Dhaka. L’orfanotrofio maschile ospita 60 ragazzi fino ai 12 anni, ed è gestito con molte difficoltà e grandi utopie dai padri missionari saveriani: una piccola ma fondamentale presenza cristiana in un paese mussulmano. Charan mi prese la mano obbligandomi a seguirlo verso una palazzina che, lo compresi in seguito, era la sua casa e quella degli altri ragazzi nella sua stessa condizione. Salimmo le scale ed alcuni di loro, vedendoci arrivare, già si muovevano come mosche impazzite. Un lungo corridoio, anche pulito per quanto può esserlo un pavimento di cemento lucido. Ai lati le porte dell’unica, grande, camerata. Tre file ordinate, letti di legno, senza un materasso degno di questo nome. Lenzuola colorate, indumenti appesi lungo le pareti e nell’aria silenzio e rumore. Silenzio e grida giocose. Sguardi curiosi ma mai imploranti, con la dignità del “padrone di casa” che accoglie un ospite di riguardo.

Cerco di essere un ospite discreto muovendomi tra i letti, scambiando lo sguardo con quei piccoli uomini dalla vita corta ma già molto intensa. Respirando quella umana allegria ed eccitazione calpesto per un istante il loro mondo fatto di piccole cose, forse qualche speranza, ma certamente pregno di attimi e di presente perché il futuro, per molti di quei bimbi, è un mostro troppo pauroso anche solo a volerlo immaginare. Girovagando in quella grande stanza dall’aria umida, tra file di letti di legno e asciugamani bagnati, il mio occhio di fotografo curioso cadde su un dettaglio che fino ad quel momento mi era sfuggito. Molti di quei ragazzi portavano – legata in vita – una cordicella con appesa una piccola chiave. In un primo istante non ci feci molto caso. Pensai si trattasse della chiave del loro armadietto come quelli che “noi” usavamo ai tempi della naia. Ma lì non c’erano armadietti, e neanche armadi. Era solo una grande stanza umida con file di letti di legno e vestiti appesi lungo le pareti, un crocifisso e l’immagine di qualche Madonna a cui votarsi. E molti piccoli uomini, dal futuro incerto, con una piccola chiave legata alla vita.

Nel nostro improbabile dialogare per suoni e gesti chiesi cosa fossero quelle piccole chiavi legate in vita e compresi che tutti loro ne erano molto gelosi, tanto quasi da nasconderle o proteggerle con le mani quando le guardavo. Charan, stringendomi la mano, mi accompagnò in una altra piccola stanza, uno sgabuzzino stretto e lungo. In quell’angolo nascosto stavano riposte molte scatole di metallo, tutte uguali anche se di color diverso. Alcune con qualche scritta – forse un nome – altre senza nemmeno quel nome. Molte chiuse con un lucchetto e molte altre senza. Charan prese la sua chiave, con delicatezza, quasi con religiosa attenzione, la guardò, la soppesò tra le dita, si avvicinò ad una scatola sopra un ripiano. Avevo l’impressione di assistere a una cerimonia, un evento importante. Anche l’atmosfera sembrò ovattarsi: le grida dei bimbi quasi si acquietarono mentre Charan apriva la sua scatola di metallo color del cielo.

Il lucchetto scattò, lo tolse e lo tenne in mano.
Mi guardò negli occhi e aprì la sua scatola.
All’interno un paio di ciabatte, sembravano nuove ma ancora di un numero troppo grande per i suoi piedi scalzi. Una maglietta di una squadra di calcio ripiegata con affetto, come fosse una reliquia. Un quaderno, un bicchiere di metallo, e un giacchino leggero. Erano tutte le sue cose, tutto ciò che “possedeva” di prezioso, la sua dote di piccolo uomo. Tutto il suo tesoro.

Con un gesto gentile passò la mano sulla maglia ripiegata e richiuse la scatola. Per un istante gli occhi bassi, persi nei suoi pensieri. Poi tornò a guardarmi, e sorrise.
Quella era la stanza delle Scatole Preziose dove venivano riposti e custoditi i tesori. Ciò che avrebbero portato e avuto nel loro futuro. Molti di quei bimbi festanti e urlanti disponevano di una scatola di metallo con un lucchetto chiuso e una cordicella legata in vita. Molti di loro riponevano in quelle scatole preziose i loro sogni.

Molti altri di quei bimbi, invece, certamente anche loro carichi dei sogni che ogni ragazzo ha il diritto di avere, non disponevano nemmeno di una scatola.
E non avevano una cordicella legata alla vita. Il mondo è pieno di Charan in attesa di una scatola dove riporre il proprio sogno.

Gabriele Orlini, ©All rights reserved
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