Accadde nei primi mesi del 2010. Incontrai l’Africa, quella vera, quella sporca e colorata, inebriante e puzzolente. E la prima volta accadde in Cameroun. Atterrai a tarda notte e senza bagagli all’aeroporto della capitale Yaoundé. Dopo una lunga attesa ai nastri di consegna vicino ad altri viaggiatori bianchi, sudati e perplessi, da un tavolino da campeggio con la scritta Lost&Found ci dissero che i nostri bagagli erano rimasti – persi? – a Douala durante lo scalo tecnico di qualche ora prima. O almeno così faceva intendere poco convinta e con fare assonnato la grossa signora che stava lì di fronte a noi.
S’avvicinò un’improbabile casacca – credo volesse essere una divisa – con dentro un ragazzo magro. Certamente la taglia era sbagliata ma lui sembrava non accorgersene e la portava fiero. Ci fece capire che i bagagli, forse, potevano anche essere cercati. E ci fece capire che i bagagli, forse, potevano pure essere ritrovati. Una manciata di dollari americani di piccolo taglio avviò magicamente il nastro delle consegne e tra un rumore cigolante e pigro apparve la mia sacca. Ero arrivato in Africa. E scrissi per la prima volta nel taccuino delle esperienze ciò che era accaduto.
La prima notte la passai in un piccolo albergo nel vicino sobborgo della città e, come nel più classico dei film noir, anche la mia finestra disponeva di un’insegna colorata al neon che mescolava il suo ronzio con quello delle zanzare. La camera poteva considerarsi gnomica e per buona parte della notte insonne cercai di capire come avessero fatto ad inserire il letto in quella piccola stanza. Decisi che l’avevano costruito dentro: non c’era altra soluzione.
Nonostante l’albergo ospitasse anche un bordello al piano inferiore, la notte fu tranquilla: i rumori delle ragazze sulle scale si amalgamavano ai ronzii delle zanzare e al neon colorato. E al caldo, che iniziava già a farsi sentire.
Al mattino, si presentò quella che considerai la più grande tragedia per chi, come me, rifugge nel caffè la certezza che sia il solo artefice di quella inspiegabile alchimia che trasforma il sonno profondo in una parvenza di umana presenza.
Ma il caffè non c’era! Scrissi nuovamente nel mio taccuino delle esperienze.
Ci mettemmo in macchina con il sole che timidamente segnava l’orizzonte della città, con un ananas in mano e la negata speranza dell’agognato caffè.
Destinazione Akonolinga: un agglomerato urbano di poche migliaia di abitanti distante un centinaio di chilometri dalla capitale. Uscire dalla città si rivelò un’impresa: rotatorie costruite a caso, traffico e mega cartelloni di eroi del calcio nazionale. Ma nulla in confronto agli innumerevoli posti di blocco, governativi alcuni, privati altri, ma tutti chiamati a ingrassare le tasche dei militari o di un qualsiasi capo tribù che quel giorno avesse deciso di fare il vigile. Arrivammo a destinazione nel pomeriggio, percorrendo poco più di 100km. Imparai molto rapidamente che in Africa la distanza si calcola sempre in Tempo e mai in Km. Mi insegnarono che l’imprevisto può essere considerato pianificato. Che il trascorrere del Tempo corrisponde all’inizio di un Evento e in mezzo c’è il nulla. Che non c’è mai un momento giusto per partire. E mai la certezza di arrivare.
Il tempo che trascorsi qui, lo passai con Valentine e la sua famiglia, inventando ogni giorno un modo nuovo per comunicare tra noi. Il mio francese era troppo scolastico per sostenere un discorso; e comunque lui non lo parlava. La mia testa, troppo dura per imparare il dialetto locale.
Scrissi un’altra nota nel taccuino delle esperienze:
“la voce, a volte, produce solo rumore. Mentre gli occhi – attraverso gli sguardi – sanno dialogare con l’anima”.
Passai il mio tempo nel villaggio di Mfan ai margini della foresta a circa 20km da Akanolinga. Il villaggio nacque a metà del secolo scorso quando i francesi costruirono una lunga strada in terra rossa che tagliava la foresta ai margini della savana. Lungo la strada, i francesi volevano posare lunghi pali per il telefono. Le popolazioni che vivevano dentro la foresta si trascinarono fino a qui per fare qualche soldo. Si spostarono interi villaggi lungo questa strada. A un certo punto, i francesi se ne andarono. La strada rimase. Le case di fango pure. I pali del telefono non furono mai istallati.
Passai i miei giorni nel villaggio di Mfan ai margini della foresta con Valentine e la sua numerosa famiglia. E dopo il primo momento di scherno e risa nei miei confronti – sono bianco, ero io il diverso – Valentine e gli altri mi portarono con sé a caccia nella savana, non per il gusto di farlo ma per l’esigenza di mangiare. Una caccia fatta di corse e rincorse, di urla, di richiami, di fischi, di fuoco e di fumo. Una caccia alle piccole prede: ratti e roditori, a volte perfino qualche antilope ma solo quando il buon Dio africano di riferimento aveva il cuore di farla apparire.
Passai il mio tempo con loro, e con loro respirai, mangiai, mi sporcai.. e poi ancora respirai. E come ogni altra cosa in Africa anche il tempo inizia e finisce sempre e solo con un evento.
Il mio Tempo con loro aveva un nome.
Il nome che Valentine diede a me quando ci lasciammo: Moet-be-Kier, Uomo di ferro.